Foro Italico, l’Italia all’avanguardia
di Barbara Meletto (barbarainwonderlart.com)
“Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerarietà; il coraggio, l’audacia, la ribellione saranno elementi essenziali della nostra poesia”, così Filippo Tommaso Marinetti inneggiava alla potenza della macchina nel lontano 1909, parole che si adattano egregiamente all’intensità spasmodica del tennis contemporaneo.
IL FUTURISMO E LO SPORT
Nel corso del Novecento anche lo sport entrò a far parte del repertorio figurativo delle avanguardie storiche, in quanto perfetta espressione della modernità: dalla boxe al ciclismo, dall’atletica alla vela, dal nuoto all’automobilismo, dal calcio al tennis, nulla veniva tralasciato da questa nuova stagione di artisti.
In Italia l’avanguardia parlava la lingua del Futurismo, un movimento che fin dalle sue origini si dimostrò intimamente legato allo sport per la sua vocazione di infrangere i limiti umani, anche sul piano motorio.
Fondato nel 1909 con il celebre Manifesto di Filippo Tommaso Marinetti, il Futurismo si presentò subito come un movimento globale, intenzionato a infrangere i limiti tra arte e vita, arte e politica, arte e cultura. L’intenzione era quella di esaltare la rottura con il passato, dando forma ad una poetica rispondente alle esigenze della nascente società di massa: è la genesi di una nuova stirpe, figlia della macchina e della velocità.
“La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità.” (Filippo Tommaso Marinetti dal “Manifesto del Futurismo, pubblicato su “Le Figaro” il 20 febbraio 1909)
In questa glorificazione del dinamismo, i gesti sportivi si tinsero di valenze estetiche e assunsero significati fortemente simbolici: l’atleta- eroe si configurava come suprema sintesi tra l’antico spirito italico e la moderna forza della tecnica.
Per quanto concerne la sua rappresentazione, lo sport, che è dinamismo per eccellenza, si prestava ad essere uno dei soggetti principali dei pittori futuristi.
Arturo Ciacelli, appartenente alla “prima audace e intrepida ondata futurista”, come ebbe a dire di lui Marinetti, ci ha lasciato due opere che traducono sulla tela il vigore del tennis: “Dinamismo-tennis” del 1918 e “Ritmi” del 1925. In questi dipinti Ciacelli rese le linee di forza capaci di descrivere i movimenti di una partita di tennis: con pennellate rapide e scattanti come colpi di racchetta, l’artista mise in luce la fierezza della prestanza fisica e l’audacia della risolutezza italica.
IL FORO ITALICO
Nella sua vocazione totalizzante, l’avanguardia futurista si fece anche ideologia, andando a consolidare le basi culturali del regime fascista: molti erano i valori comuni, a volte tragicamente mal compresi ed abusati.
L’istanza agonistica fu uno degli elementi che si incrociò ottimamente con la mentalità del Regime, indirizzata alla costruzione di un uomo-guerriero, disciplinato e combattivo allo stesso tempo. Da qui la grande importanza attribuita alle organizzazioni giovanili, così come alla creazione di infrastrutture atte a modellare i corpi di questi piccoli Balilla.
Il 28 ottobre 1932, in occasione delle celebrazioni per il decennale della marcia su Roma, venne inaugurato nella capitale il Foro Italico, al tempo battezzato con il nome di Foro Mussolini. L’intento era quello di creare una vera e propria cittadella dello sport, di modo che anche l’Italia potesse ospitare importanti competizioni sportive.
“La Nazione avrà così nel Foro intitolato al nome del Duce il monumento che documenterà ai futuri la passione e la fede del popolo, la sua rinascita economica e spirituale e il riannodarsi anche in questo campo dell’Italia di Vittorio Veneto alla tradizione insigne di Roma Imperiale e Papale.” (La Stampa, 23 luglio 1929)
Progettato da Enzo del Debbio, Luigi Moretti e Costantino Costantini, il grande complesso marmoreo venne realizzato in fasi successive, per essere terminato solo alla vigilia della guerra, nel 1939.
Nel 1934 vennero avviati i lavori dello Stadio della Pallacorda, così chiamato perché al partito fascista era invisa la parola straniera tennis. Composto da una serie di gradinate di marmi bianchi di Carrara e cinto da enormi statue che raffigurano le varie attività sportive è, ancora oggi, uno dei più bei campi da tennis del mondo.
MUSSOLINI E IL TENNIS
Inizialmente ostile a quello che riteneva un “gioco da signorine inglesi”, poco prodigioso e per nulla virile, Mussolini si era a poco a poco avvicinato a questo sport, arrivando ad appassionarsene in modo quasi viscerale.
A Villa Torlonia, la sua residenza romana, fece trasformare lo storico Campo dei Tornei in un campo da tennis e chiamò alcuni valenti allenatori, tra i quali Mario Belardinelli, che sarebbe diventato il più bravo tecnico italiano nonché il maestro di Panatta, per affinarsi in questa specialità nella quale, però, non si distinse mai per grandi capacità di gioco.
Si allenava quasi ogni mattina, ma, anche se possedeva un discreto dritto, mancava completamente di rovescio. A tal proposito girava un curioso aneddoto. Si mormorava che ad Eraldo Monzeglio, uno dei suoi maestri, così avrebbe risposto al suo suggerimento di migliorare il rovescio: “noi tireremo diritto!” Un’affermazione che la dice lunga sul poderoso ego del nostro condottiero.
L’interesse dimostrato dal Duce nei confronti del tennis giovò fortemente a tale disciplina e contribuì a spostare la sede del Torneo Internazionale da Milano, dove si svolgeva dal 1930, a Roma, con grande rammarico del suo promotore il conte Alberto Bonacossa, uno dei più grandi dirigenti sportivi dell’epoca che, sulla scia del Roland Garros e di Wimbledon, aveva ideato anche per l’Italia un evento di portata internazionale. Ma, come è noto, al tempo non si poteva rispondere che con un “obbedisco”.
GLI INTERNAZIONALI DI TENNIS A ROMA
Fu così che nel 1935 si disputò la prima edizione romana degli Internazionali di tennis. Il Partito certamente desiderava una vittoria nostrana, in grado di rivendicare la supremazia razziale di un popolo di luminosa origine. Con grande sconcerto ed amarezza, a trionfare fu Wilmer Hines, un outsider americano, che sconfisse in finale l’italiano Giovanni Palmieri, ex raccattapalle del Circolo Tennis Parioli poverissimo e di umili origini.
La novella tradizione dovette subito interrompersi: le sanzioni per la guerra all’Etiopia, la Seconda Guerra Mondiale e l’espulsione dell’Italia dalla Federazione Internazionale, lasciarono deserti i campi rossi del Foro fino al 1950.
Già in quella prima storica edizione si verificarono degli “incidenti” che avrebbero connotato un Campionato più “colorato” rispetto a quelli del Grad Slam. Rubando le parole al grande giornalista Bud Collins: “gli inglesi possono aver inventato il tennis, ma gli italiani l’hanno umanizzato.”
Le più recenti edizioni del torneo capitolino hanno visto trionfare due fra i migliori interpreti del tennis moderno: Novak Djokovic e Rafael Nadal.
Riaccendendo i bagliori della battaglia futurista, la sfida tra i due contendenti al trono ha riportato il tennis ad una dimensione epica, di scontro tra titani senza esclusione di colpi; con loro il tennis ha abbandonato le finezze da fioretto per caricarsi dall’audacia necessaria a ribellarsi al culto per la tradizione e a spodestare l’avversario.
“Non v’è bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per indurle a prostrarsi davanti all’uomo.”
(Filippo Tommaso Marinetti dal “Manifesto del Futurismo, pubblicato su “Le Figaro” il 20 febbraio 1909)