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Il tennis in guerra

di Barbara Meletto (barbarainwonderlart.com)

Stiamo vivendo un periodo decisamente surreale che ha completamente stravolto il nostro vivere quotidiano. Anche il tennis, come tutti gli altri sport, è al centro di una rivoluzione: tornei saltati, campioni fermi, classifiche congelate. Una situazione di arresto forzato che solo le guerre mondiali avevano imposto.

Il periodo che stiamo vivendo con il Covid ha bloccato molti tornei nel corso del 2020, tra questi anche Wimbledon. Nella foto la mascherina utilizzata da Rafael Nadal al Roland Garros

IL TENNIS E LA PRIMA GUERRA MONDIALE

“C’è stato un tempo per tutto, ora c’è tempo solo per una cosa, la guerra. Se un giocatore di cricket ha un buon occhio, mettetelo dietro il mirino di un fucile. Se un calciatore ha gambe forti, fatelo marciare sul campo di battaglia.” (Arthur Conan Doyle, 1914). Due giorni prima della semifinale di Coppa Davis tra Australia e Germania, scoppiò un conflitto che avrebbe coinvolto le nazioni più potenti del pianeta: la Prima Guerra Mondiale. Il torneo si fermò, così come Wimbledon, i campionati francesi e quelli australiani. Solo gli U. S. National Championships continuarono, anzi, data la loro crescente importanza, nel 1915 abbandonarono la sede di Newport per trasferirsi a New York, nel West Side Tennis Club di Forest Hills. 

Wimbledon, il court numero uno prima della costruzione del tetto (©foto di Roberto Dell’Olivo)

Ma non furono solo gli eventi a subire una dura battuta d’arresto, molti sportivi furono chiamati al fronte dove, se non trovarono la morte, persero comunque la loro anima. Era la prima volta che si assisteva ad un dramma di questa portata le cui conseguenze catastrofiche si rivelarono in ambito economico, politico, psicologico e sociale.

Il ponte di Brooklyn (©rdosport) – Durante la guerra solo gli U. S. National Championships continuarono a disputarsi

RHODA DE BELLEGARDE DE SAINT LARY

Con gli uomini in battaglia, le donne si impiegarono nelle fabbriche, cominciando ad occupare ruoli tradizionalmente maschili. Alcune donne, non paghe di rimanere dietro le quinte, scesero in prima linea arruolandosi come volontarie. È questo il caso di Rhoda de Bellegarde de Saint Lary, una stella del tennis che prestò il suo servizio come crocerossina.

RHODA DE BELLEGARDE DE SAINT LARY

Nata a Firenze l’8 agosto 1890 da Roberto de Bellegarde, un ufficiale dell’esercito sabaudo, apparteneva ad una famiglia di antica nobiltà. La giovane fanciulla seguendo l’esempio della sorella Margherita, di otto anni maggiore di lei, si appassionò al tennis, sport allora praticato dalle classi più elevate. Ben presto Rhoda si fece notare per le sue doti agonistiche, vincendo i primi due campionati italiani femminili nel 1913 e nel 1914. Quando l’Italia entrò in guerra, la nostra eroina chiese di poter essere utile al paese, offrendosi come infermiera per la Croce Rossa. La stessa energia ed il medesimo entusiasmo che aveva speso nel tennis, Rhoda lo profuse nella sua opera di assistenza ai soldati feriti, testimone degli esisti più volenti del massacro.

Completini di tennis in esposizione al museo di Wimbledon

Nella primavera del 1918 fu inviata presso l’ospedale allestito nel Castello di Stigliano, nell’omonima frazione del comune di Santa Maria di Sala. Sfortunatamente il destino non fu benevolo con Rhoda. Nel settembre del 1918 contrasse l’influenza spagnola, una terribile pandemia destinata a mietere più vittime della guerra ancora in corso.

Rhoda de Bellegarde de Saint Lary si spense a Stigliano il 13 ottobre 1918 e fu sepolta nel cimitero di Briana, a poca distanza dai soldati che con tanto amore aveva curato. Descritta come un “angelo della carità”, per i servigi resi fu insignita della Medaglia d’argento al Valor Militare. Una donna che merita di essere ricordata sia come campionessa di tennis che come instancabile missionaria.

IL DIPINTO

Nella Pinacoteca di Brera, a Milano, è custodito un dipinto di Carlo Carrà intitolato “Musa metafisica”, del 1917. In una stanza affollata di oggetti, un grande manichino adagiato su di un piedistallo troneggia in primo piano. Ha le fattezze di una giocatrice di tennis: una racchetta nella mano destra e una pallina nella sinistra fanno esplicito riferimento al gioco. Indossa un golfino e una gonna a pieghe, stretta in vita con una cintura. Sullo sfondo compare un prisma colorato e, sulla destra, vi sono delle architetture disegnate su dei pannelli. 

Carlo Carrà, Musa metafisica, 1917

Il particolare interessante è dato dal plastico posto ai piedi del manichino, che riproduce una parte di terra che confina con il mare. Quella terra è l’Istria ed il bersaglio allude ai campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale. Nonostante il senso di straniamento dell’opera, “Musa metafisica” fa riferimento ad un momento storico ben preciso. 

Come molti altri artisti, anche Carrà fu profondamente colpito dagli orrori della guerra e dalle questioni nazionaliste che stava portando alla luce, prima fra tutte la difficile gestione dei territori adriatici, contesi tra l’Italia e le popolazioni slave. Ma la guerra segnò Carrà anche personalmente. Chiamato a prestare servizio nel 27° Reggimento di Fanteria di Ferrara, come soldato semplice, nel gennaio del 1917 fu dichiarato inidoneo e affidato alle cure psichiatriche della sezione neurologica di Villa del Seminario.  La guerra non lascia scampo: colpisce nel corpo, come nel caso di Rhoda de Bellegarde, oppure nello spirito, come accadde a Carlo Carrà. 

Mi piace pensare a quel manichino come un omaggio a Rhoda, una delle tante vittime dell’aberrazione umana. “Lo stato della mia salute peggiorava, finchè si rese necessario ricoverarmi in un nevrocomio fuori di Ferrara. Il direttore dell’ospedale, colonnello Gaetano Boschi, vero scienziato in materia di malattie nervose, mi usò molti riguardi e mi fece assegnare una cameretta acciochè io potessi dipingere, pensando egli giustamente che oltre le cure mediche il lavoro a me caro avrebbe contribuito a rinfrancarmi nel fisico e nel morale.” (Carlo Carrà, “La mia vita”, 1943).

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