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Ho visto Maradona

di Antonio Garofalo

Il ricordo di un ex bambino napoletano che ha sognato con Diego e un’intera città

Se n’è andato così, in un triste novembre di un anno tragico. Una crisi respiratoria gli è stata fatale e in questo c’è uno scherzo del destino, lui che il fiato lo ha tolto a generazioni di difensori e a milioni di tifosi.

L’immagine di Maradona pubblicata nel sito ufficiale del Napoli calcio. Per Sempre. Ciao Diego

El Pibe de Oro, El Dios, il Calcio, un’icona mondiale: in realtà Diego, può sembrare assurdo, è stato molto di più.
In queste righe non troverete il racconto di un’incredibile carriera, delle meraviglie mostrate sul tappeto verde, né la cronaca di una vita buttata via.
Io ho visto Maradona, l’ho visto tante volte allo Stadio San Paolo e qualche altra in allenamento e oggi per me, come per tanti quarantenni napoletani, l’infanzia è volata via per sempre, con qualche anno di ritardo.
Perché bisognava esserci in quelle domeniche di fine anni ottanta in Curva B, con papà Enzo, zio Eduardo e tutti gli altri amici, tre quattro ore prima dell’orario di inizio della partita, lì per gustarsi l’attesa. Già, perché mai come in quelle occasioni, l’attesa del piacere era essa stessa il piacere. Un’atmosfera magica, in un tripudio di colori, tra frittate di pasta, parmigiane di melanzane, caffè Borghetti, interminabili partite a scopone e fuochi artificiali, in attesa del giocoliere riccioluto.

Castel dell’Ovo ed il Vesuvio visti da Mergellina

E via con Oh mamma mamma mamma, oh mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon, ho visto Maradona, ho visto Maradona, uè mammà, innamorato son!”,con il tabellone del San Paolo che esplodeva in un DIEGOL! e un enorme striscione azzurro  e sudicio che ricopriva sopra la testa l’intera curva.
L’uomo che ha vinto da solo un mundial con l’Argentina e un altro – nessuno glielo ha mai tolto dalla testa – lo ha perso solo in finale più per colpa della Fifa che della Germania Ovest, avrebbe potuto giocare in qualsiasi squadra del mondo, a qualsiasi latitudine. Ma senza Napoli, Diego non sarebbe stato Maradona: Nel bene – tantissimo – e purtoppo anche nel male.

Diego Armando Maradona 4 anni fa, nel novembre del 2016 , immortalato a Zagabria a tifare per la sua nazionale nella finale della Coppa Davis di tennis vinta da Del Potro e compagni (foto di Roberto Dell’Olivo)

Nessuno più di Maradona nella storia dello sport ha incarnato la lotta al potere, novello Che Guevara, amico di Fidel:  che i nemici fossero gli avversari ricchi e strutturati del Nord, la Federazione, gli inglesi e la guerra delle Malvinas, Blatter, Pelè e Platinì, poco importava. Un masaniello del genere, uno capace nella stessa partita di mettere in scena la Mano de Dios e di dribblare tutta l’Inghilterra e forse anche Scozia e Galles già che c’era, il diavolo e l’acqua santa nella stessa faccia,  non poteva che deflagrare nella città delle mille contraddizioni e dei “mille culure”.
Se ancora oggi girando per Napoli trovate murales a sua immagine e somiglianza a grandezza naturale, se i  maschietti nati nel periodo 1984-1991 si chiamano tutti Diego, e qualcuno Diego Armando, ci sarà un perché.

L’immagine di Maradona in un negozio nel centro storico di Napoli

Perché Diego non è stato solo il profeta dei due scudetti napoletani e della coppa Uefa, è stato l’icona di una rivoluzione, di Napoli che può sovvertire l’ordine precostituito e che sulle macerie del terremoto, sulle avanguardie della questione meridionale ha edificato la realizzazione di un sogno.
“Che ve siete persi!” campeggiava sulle mura del cimitero di Poggioreale in piena epopea maradoniana, e chi ha avuto la fortuna di guardare Dieguito palleggiare con un’arancia in allenamento o chi ha potuto raccontare dell’estrema generosità di un uomo nei confronti di compagni e persone bisognose, sa di essere un privilegiato.
Come quella volta che Ferlaino non voleva che si giocasse una partita di beneficienza  per un bambino malato, su un campo di patate di Acerra per mancanza delle polizze assicurative. “Che si fottano i Lloyds di Londra!”. E via in campo, in mezzo al fango, sotto il diluvio, con una maglietta azzurra non ufficiale e con un sorriso canzonatorio tra un tunnel e un tiro all’incrocio.
Un amore incondizionato, ma soffocante che lo ha stritolato e costretto a scappare di notte come un ladro, lui che nell’immaginario collettivo della città siede da sempre al fianco di San Gennaro. Ma il legame con la sua terra adottiva (“Quando ho vinto il mundial ero in Messico, ora invece sto vincendo a casa mia” raccontava al microfono di Galeazzi il giorno del primo scudetto) non si è mai reciso, provate a chiedere agli amici Ciro Ferrara, Salvatore Bagni o Beppe Bruscolotti.

Maradona con il pallone d’oro

Tra le tante immagini di Diego che affollano la memoria di un ex bambino estasiato di fronte a tanta bellezza ( il parco giochi? I videogame? Non c’era nulla di così coinvolgente…) restano due frame iconici.
Il primo è un gol di testa da quasi centrocampo segnato contro lo strepitoso Milan di Sacchi e degli olandesi: Baresi e compagni alzano la linea del fuorigioco sino a centrocampo e Diego inarcando la schiena si inventa un pallonetto di testa che scavalca Galli e lemme lemme arriva in rete: l’attesa di quel pallone che arriva in porta, è l’estasi per un gesto folle e inimmaginabile di un genio, che riesce a beffare la meccanica e (quasi) perfetta organizzazione di una squadra di fenomeni.

Maradona, Napoli graffiti (©rdosport)

L’altra immagine è Diego, nella sua ultima partita al San Paolo che, uscendo dal campo si toglie gli scarpini e percorre scalzo tutto lo stadio per salutare i suoi tifosi: non gioco più, non mi diverto.
Addio.

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